Le recenti riforme per l’attuazione del PNRR stanno imprimendo significativi cambiamenti nel modo di agire della pubblica amministrazione, confinandolo sempre di più negli angusti limiti del raggiungimento dell’obiettivo predeterminato dal Piano, il cosiddetto “risultato” anche a prescindere, in taluni casi, dalla verifica della attualità e dalla concretezza dell’interesse pubblico, a cui è finalizzato l’intervento programmato. Ciò è bene evidenziato sia dai decreti sulla “semplificazione amministrativa”, che, da ultimo, dalla nuova disciplina degli appalti. Per quanto riguarda i primi, è sufficiente osservare che il nuovo istituto del silenzio assenso (art. 17 bis, l. 241/90), applicabile nell’ambito della conferenza di servizi anche in presenza di interessi sensibili, finisce per far coincidere con il canone della tempestività (ovvero del “fare presto ad ogni costo”) tutti i paradigmi costituzionali dell’attività amministrativa, obliterando quelle garanzie che, invece, proprio sulla base di tali paradigmi la scienza giuridica ha elaborato per tutelare gli interessi giuridicamente rilevanti, individuali o collettivi, dall’esercizio arbitrario del potere. L’idea che sembra emergere da tali interventi è, infatti, quella di una sostanziale sfiducia negli apparati amministrativi, sì che la legge (del Governo) si sostituisce all’Amministrazione sia nel predeterminare l’interesse pubblico, che nel definire le modalità e i tempi di attuazione. Per quanto riguarda il settore degli appalti, certamente il più cruciale per l’attuazione del PNRR, il perseguimento del risultato ad ogni costo (elevato a principio interpretativo della disciplina, ai sensi dell’art. 1, d.lgs. 36/2023), si concretizza nel prediligere la realizzazione dell’opera, con disposizioni volte a favorire la conservazione degli effetti del contratto, anche se fondato su una aggiudicazione illegittima (art. 121, c. 3, D.lgs. 36/2023), indirizzando la tutela giurisdizionale al risarcimento per equivalente, che, però, come sappiamo, non sempre corrisponde ai canoni costituzionali della pienezza e della effettività della tutela a cui è funzionalizzato il processo (art. 2 c.p.a.). Queste brevi osservazioni evidenziano un possibile rischio che implica il principio del risultato, se il raggiungimento “ad ogni costo” possa indirizzare la funzione amministrativa e, di conseguenza, quella giurisdizionale verso finalità diverse da quella delineate dalla Costituzione. Tale rischio potrebbe essere (forse) contenuto solo riferendo l’attuale regime dell’attività amministrativa e del controllo giurisdizionale esclusivamente alla realizzazione degli interventi attuativi del PNRR (e limitatamente a il periodo di attuazione), rinvenendo, con qualche forzatura, un possibile fondamento costituzionale nel combinato disposto degli artt. 81 e 97 Cost., che, nell’ottica di tutelare il bilancio europeo, dispongono l’obbligo di conformare l’attività amministrativa al rispetto dell’equilibrio di bilancio (art. 81 Cost.) e alla sostenibilità della spesa pubblica (l’art. 97, Cost. c. 1). In questa prospettiva, la flessione delle garanzie del giusto processo e dei principi di buon andamento ed imparzialità, potrebbe trovare un possibile fondamento nella eccezionalità (e temporaneità) del quadro normativo in cui si collocano, oggi, l’attività amministrativa e quella del giudice, senza escludere, sin d’ora, l’opportunità di trarre da questi cambiamenti possibili soluzioni a problemi antichi, sfruttando il periodo di attuazione del PNRR per sperimentare nuovi modelli che sappiano coniugare l’efficienza della pubblica amministrazione con l’effettività dei diritti e della loro tutela.
di Margherita Interlandi, Ordinario di diritto amministrativo presso l’Università Federico II di Napoli